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lunedì 7 marzo 2011

L’impegno di Maria Carmen Lama


Dal quotidiano “Il Giorno” del 5 marzo 2011 – Inserto Lecco, pag 11
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IL PERSONAGGIO – L’ARTISTA

L’impegno di Maria Carmen Lama
«Una poesia per dare voce alla sofferenza delle donne»

L’autrice racconta la forza e la magia delle parole

-  Robbiate -
"Poesie per dare voce alla sofferenza delle donne nei rapporti con gli uomini e nelle difficoltà che incontrano ogni giorno". Con queste parole, Maria Carmen Lama spiega "Prigioniere del silenzio", suo primo libro di poesie pubblicato da Aletti nel settembre 2010. Poco più di un mese dopo, sugli scaffali delle librerie è arrivato invece, sempre con Aletti, "Verso la poesia, alla ricerca di senso", un Saggio dove la Lama ha riletto i grandi poeti che ama: Emily Dickinson, Mario Luzi, Pablo Neruda, Eugenio Montale, Antonia Pozzi e Marina Cvetaeva, proponendo la sua interpretazione della loro poetica.
Sessantuno anni, Maria Carmen Lama è nata in provincia di Messina. Superiori al Liceo classico di Patti (nonché maturità magistrale) nel 1970, Carmen lascia la Sicilia per Milano. "Cercavo lavoro. Trovai un impiego, ma volevo insegnare. Nel 1975 partecipai al primo concorso utile e lo vinsi. Nel 1976 ero maestra a Milano".
Intanto la futura poetessa incontra Francesco, operatore Rai, robbiatese, che l'anno dopo diventa suo marito. Nel 1978 nasce Andrea. Nel 1977 ottiene anche il trasferimento nel circolo didattico di Robbiate. Dice "Ho insegnato a Verderio Inferiore, Robbiate, Bernareggio. Mi ero iscritta all'università statale di Milano, laureandomi in Filosofia. Nel 1992 partecipai al concorso per Dirigente scolastico e lo vinsi".
Prima sede a Calusco d'Adda, dove rimarrà per un decennio, la dottoressa Lama dirigerà poi l'Istituto Comprensivo di Cernusco Lombardone per concludere la carriera scolastica, nel 2006/2007, come Preside del "Medardo Rosso", Liceo artistico di Lecco. "Un'esperienza indimenticabile" ricorda.
Dice ancora: "La passione per la poesia è sempre stata forte. Durante gli anni impegnativi da Dirigente, era una sorta di evasione dalla lettura dei documenti scolastici. Cominciai a scrivere articoli per le riviste di settore. L'interesse per la scrittura diventava sempre più forte. Le prime poesie risalgono a dieci anni fa. Ho scritto poesie su diversi temi, ma in questo primo libro prevale una riflessione sulla sofferenza delle donne, nei rapporti con gli uomini e col quotidiano. Lo mandai ad un amico. Quando mi ritornò, i suoi commenti alle poesie erano così inattesi che mi spronarono a continuare. "Se ho saputo trasmettere questo - mi dicevo - forse qualcosa di buono c'è. Prigioniere del silenzio è nato così".
S.P.

di Sergio Perego
-  Robbiate -
Maria Carmen Lama ha 61 anni. Da dieci scrive poesie. Ha pubblicato "Prigioniere del silenzio" e "Verso la poesia, alla ricerca di senso", un Saggio sui poeti che ama.
D Carmen Lama perché questi libri?
Col primo volevo dare voce alla sofferenza delle donne. Ogni giorno ascoltiamo storie di donne maltrattate. La mia empatia con loro è totale. Ho voluto diventare la loro voce, perché si prenda coscienza che il problema esiste. Il libro è dedicato alle donne, ma anche agli uomini che le amano nella loro interezza. Se non è il tuo uomo che ti valorizza, non solo per il corpo, chi mai potrà farlo? Quanto al Saggio, è insieme una ricerca sulla dichiarazione di “poetica” di grandi poeti del passato, ed anche la mia personale interpretazione di alcuni poeti del Novecento e di poeti contemporanei “emergenti”.
D La sua prima poesia?
Risale a dieci anni fa. "Prigioniere del silenzio" è stato scritto in momenti diversi e non avevo intenzione di far diventare le poesie una silloge, ovvero una raccolta. L'idea è arrivata quando le poesie erano ormai più di cento.
D Da dove nasce questa passione?
Da studentessa amavo Leopardi. In generale la poesia mi apriva nuovi orizzonti. Le parole poetiche invitano a riflettere, ma sono anche suono, ritmo, musica.
D C'è stato un momento durante il quale ha capito che per lei scrivere sarebbe stato importante?
Sì, quando ho capito che scrivendo mi liberavo della sofferenza che mi colpiva guardando il mondo, e che era anche un modo per esprimere la mia gioia più grande. Con la poesia racconto i sentimenti, dunque me stessa.
D Il poeta italiano che ama di più?
Mario Luzi. Non è difficile come molti affermano, e ti costringe a riflettere. Le domande che il poeta si pone ti rimbalzano addosso. Lui non dà risposte, ma tu non puoi fare a meno di cercarle.
D Quello straniero?
Sono due donne, Emily Dickinson e Marina Cvetaeva. le loro poesie sembrano semplici, ma ti danno emozioni. Ti fanno pensare. Per me assumono carattere universale, perché tutti possono capirle e vi si possono riconoscere.
D Lei è stata a lungo insegnante, poi Dirigente scolastico. Questa passione l'ha aiutata nel suo lavoro?
Ricordo che verso la metà degli anni ottanta, con i bambini di Verderio Inferiore avevamo scritto un libretto di poesie. Quanto alla dirigenza, dopo la lettura delle circolari, leggere poesie la sera, era un ristoro.
D Un consiglio ad una giovane donna  che voglia cimentarsi con la poesia?
Leggere molto i grandi poeti, ma anche quelli contemporanei e poco conosciuti. Certo per scrivere devi avere qualche sensibilità che ti porti a desiderare di farlo. Una situazione che a tutti può sembrare banale, per il poeta diventa qualcosa di diverso. Un bell'esempio di questo genere è il francese Yves Bonnefoy.
D Un poeta emergente che ama?
La napoletana Cristina Bove. Le sue poesie sono originali e personali. A volte è difficile entrare nelle sue metafore, ma quando li leggi, i suoi versi si riconoscono. Ha un bel pubblico di lettori su Internet.
D Il poeta contemporaneo che non dovrebbe mai mancare in una libreria?
Franco Fortini. Negli anni sessanta-settanta il più grande. E poi la polacca Wislawa Szymborska, per il suo scrivere semplice ma profondo, Nobel nel 1996.
D Perché un Saggio?
Volevo capire quali fossero le poesie che possiamo definire vere, ma anche chi è il vero poeta. Ho studiato. Poi ho deciso che avrei scritto. Dietro a questo Saggio ci sono tre anni di lavoro. Sono partita da Orazio, sono transitata per il Ducento-Trecento e poi, saltando qualche secolo, sono arrivata al Parini, che rappresenta quella cesura tra classicismo e illuminismo, che ho voluto evidenziare già a partire dalla sua stessa poetica, e nell’excursus storico successivo ho preso a riferimento poeti ritenuti innovatori dell’arte poetica, Infine i simbolisti e i contemporanei.
D Chi sono per lei i veri poeti?
Quelli che aiutano a riflettere, come Luzi, Montale, Ungaretti, tanto per citare solo tre dei nostri “grandi”.

mercoledì 1 dicembre 2010

Prigioniere del silenzio (silloge poetica di Carmen Lama)

Ho letto una prima volta la silloge “Prigioniere del silenzio” di Carmen Lama, e mi propongo di rileggerla, poesia per poesia. E dopo terrò questo libro sul mio comodino, per aprirlo ogni tanto e leggerne ancora una a caso.
Perché leggere i suoi versi è come sentirla parlare con la sua voce calda, come venire in contatto con la sua anima delicata.
È la prima volta che avverto questa sensazione di avvolgente amorevolezza nelle parole di un poeta e ne sono piacevolmente sorpresa.
Conoscevo già da tempo la bravura di Carmen nel recensire, così come nel poetare, la sua capacità di penetrare il mondo interiore di chi si esprime in poesia.
Ma in queste sue di oggi ho provato l’emozione di essere condotta per mano a una condivisione più immediata, alla comprensione profonda della condizione femminile, che la sua poesia disvela come tacita accoglienza del dolore, della fatica, del silenzio.

I versi si dipanano in un crescendo sempre più vicino alla cognizione dell’essere, come se l’Autrice mormorasse a se stessa le sue umane paure, il suo ripiegarsi in domande che sa senza risposte.
Eppure se ne avverte la forza, il coraggio di chi sa che è necessario affrontare ogni vicenda che la vita presenta, e in questo sentirsi umanamente parte del comune destino.
“…E aspetterò tempi migliori.
convincerò la mia anima
che stiamo insieme giocando
a nasconderci dal lutto
che incomberebbe,
spietato
sul cuore inerme…”

Nel pathos di alcune strofe si intuisce quanto abbiano inciso gli accadimenti drammatici, quanto abbiano scavato i disagi delle incomprensioni, e quanto fatto emergere, però, dell’intima bellezza di una mente che osserva e pacatamente annota:
“…ognuno ha la sua dose
di morte quotidiana:
ogni giorno che passa
accorcia il filo
che porta al traguardo.
E quando è l’ora temuta
ognuno muore
della sua propria morte
che è unica, speciale e solitaria…”

A volte l’Autrice ha schiarite, soprassalti di luce, in cui si esprime con fare giocoso, come se guardasse con occhi sempre nuovi il mattino, il fiore, gli occhi di chi ama.
E allora i suoi versi acquisiscono una levità armoniosa e arieggiata, un respiro di sole.
Altra emozione è seguirla nel suo percorso tra donne accomunate da un filo rosso, tra speranza e timore, mai rassegnate, solo pazienti, in attesa che il tempo appiani l’incertezza e la vita continui il suo corso.
Carmen ci comunica così il suo sogno di poesia, mai ammutolito, questo, perché il silenzio può chiudere la bocca ma non il cuore.
Così la sentiamo palpitante quando l’amore ha urgenza di essere chiarito. Quando il sentire si fa troppo acuto e nemmeno il dialogo con Dio può lenirlo.
Ma lei ci prova, acconsente al mistero, con la consapevolezza di chi riconosce nel proprio limite umano qualcosa di prezioso, benché celato.
E allora il suo canto diventa speranza e gratitudine.
Grande consapevolezza, anche:
“…Ma io comprendo, Padre
E ti ringrazio, pure.”
“…Preferisco sfidare il mio destino
e vivere quel che sento, qui, ora,
e non m’importa dell’inferno futuro,
né del paradiso, paranoia dell’uomo…”
“…Lasciami, ti prego, vivere la mia vita,
se vorrai guadagnarti
il tuo Paradiso”

La poesia di Carmen Lama è un ruscello dalle acque limpide che dissetano e ristorano.
I suoi versi infondono coraggio, trasmettono forza e voglia di vivere.
Lascio che sia lei a salutarvi così:
“Forse
la pagina più bella
della tua vita
non è ancora stata scritta.”


Cristina Bove




Si può acquistare, prenotandolo presso qualsiasi libreria oppure si può richiedere online all'Editore
a questo indirizzo: http://www.alettieditore.it/emersi/ott10/lama.htm
(in fondo alla pagina si clicca su "Ordina il libro" e si invia poi una e-mail con i dati utili), oppure presso l'ibs: http://www.ibs.it/code/9788864983684/lama-m-carmen/prigioniere-del-silenzio.html

giovedì 11 marzo 2010

Giovanna Giordani



Recensione di Carmen Lama
 
Sulla riva del fiume
di Giovanna Giordani
- Aletti editore -

Sulla riva del fiume: prima silloge di Giovanna Giordani, giunta quasi a sorpresa per lei stessa, che forse non s’era posta prima d’ora il problema di condividere con interessati lettori il suo piacere per la scrittura in versi delle sue emozioni, dei suoi pensieri e sentimenti, attraverso una pubblicazione. Bella sorpresa, invece, per lettori che amano la poesia, come la sottoscritta.
Generalmente inizio la lettura di una raccolta di poesie cercando di decifrare il senso del titolo. In questo caso, mi è venuto in mente per associazione immediata il titolo di un libro di riflessioni sul senso della vita, Sono come il fiume che scorre, di Paulo Coelho. Ma, mentre in quel testo l’autore si identifica con il fiume e ripercorre, anche in senso autobiografico, il divenire e il mutamento continuo, per dar valore alle cose più semplici e belle, ho immaginato che Giovanna stesse invece “osservando” quello stesso divenire e mutamento continuo del mondo e della vita, standosene tranquillamente “sulla riva del fiume”. Il suo osservare, che in realtà si ritrova poi assorbito nei versi poetici, non è però passivo guardare, lasciar scorrere e lasciar accadere gli eventi del mondo, bensì compartecipazione talmente profonda e intima da lasciare di sé impronta e segno visibile in ogni poesia.
L’autrice definisce il suo poetare non ricercato, ma semplice, vero, naif, quasi sottintendendo in questa definizione una sua naturale ritrosia, un suo non sentirsi vera poeta bensì solo una persona che voglia esprimere in versi la sua sensibilità.
E chi ha detto che bisogna scrivere poesie servendosi di lessico ricercato, che spesso potrebbe essere sinonimo di indecifrabile, difficile, non fruibile se non da pochissimi?
Ho piacevolmente assimilato la scrittura poetica naif (per tenere la sua originale definizione) di Giovanna Giordani alla semplicità con cui si leggono, si interpretano e si interiorizzano le sue poesie, poiché questa semplicità si accompagna ad una profondità di pensiero che dà modo al lettore di riflettere e di guardare con occhi nuovi il mondo e tutto quel che vi accade.
Già dalla prima poesia Ah, se potessi, l’autrice mette in primo piano la sua poetica dell’amore, che è il suo modo peculiare di osservare gli eventi del mondo, cercando delle strategie quasi magiche per realizzare il suo intento di vivere in armonia con l’universo, trasformando il suo essere “sillabe d’assenso” nel vero senso della vita che appunto nell’amore può risiedere e in nient’altro. In questo “la poeta” conferma il pensiero di Neruda che sosteneva che “la poesia è un atto di pace”. E non è un caso che la silloge si concluda anche con una poesia nella quale si vorrebbe capire il perché dell’esistenza del male e la sua origine, con la sottile ma non velata intenzione di capovolgerlo in bene.
I primi sonetti, ispirati da racconti, film, eventi reali, o semplici osservazioni della natura, confermano questa attenzione privilegiata della Giordani ai rapporti umani, al senso vero dell’esistenza e alla profondità di un sentimento la cui durata potrà attraversare il Tempo e oltrepassarlo, anche soltanto grazie all’incisione di un nome.
Delicatissimi, poi, sono anche gli haiku, che in brevità e concisione distillano pensieri.
La terza parte della silloge, la più corposa per numero di poesie, è di una bellezza che non si può descrivere, bisogna sentirla e viverla. Ci si rende conto di ciò, a partire dalla poesia che ci presenta “Il volto del silenzio”: solo un poeta può “vedere” questo volto e scoprire perché… “mai saprà spiegare / tutta la luce / che gli brucia dentro”! … perché è un silenzio pregno di parole, di pensieri, di voce, ma non ha voce.
Un’altra bellissima poesia da segnalare è una meta-poesia, che però si contraddice alla fine. Si tratta della messa in scena dell’umiltà della poeta-autrice, ne’ La mia poesia è una regina scalza, che poi è anche una regina nuda e bianca e che, quando diventa nera e “cammina leggera / sulle dune, / (è) incurante se il vento / traccia non lascerà / delle sue impronte”: sta proprio qui la contraddizione della poeta, nel credere che la sua poesia non lascerà impronte, mentre invece le ha già lasciate proprio in questo suo essere movimento discreto che scruta negli anfratti dei cuori.
E si potrebbe continuare svelando l’implicita “semplicità profonda” o “semplice profondità” delle altre poesie.
Ma un recensore deve fermarsi un attimo prima di togliere al lettore il piacere, la sorpresa e la voglia di scoprire da sé il senso e la bellezza di ogni creazione poetica, potendo dare a sua volta libertà alla propria mente di ri-creare significati.
E dunque concludo, riassumendo l’invito a leggere questa silloge, con l’Haiku che mi pare la caratterizzi: “Bellezza”: Alto vertice / di rara perfezione / dono d’incanto.
Carmen Lama

sabato 13 febbraio 2010

LA MORTE

LA MORTE
(di Vladimir Jankélévitch - Ed. Einaudi)
…………………………………
Recensione a cura di Carmen Lama


La morte, di V. Jankélévitch, è stato definito un libro "sconvolgente".
Si può fare Filosofia della morte e scriverne per 474 pagine dopo aver affermato fin dall'incipit della Premessa che sia "dubbio che la morte sia un problema specificamente filosofico" e che sulla morte "Non c'è proprio nulla da dire"?
È quanto ha fatto in modo veramente sconvolgente questo filosofo ebreo di origine russa e naturalizzato francese, vissuto dal 1903 al 1985, la cui opera filosofica è un vero e proprio compendio di idee originali e di cultura raffinata ed amplissima.
Il libro si suddivide in tre parti, i cui titoli già orientano il lettore riguardo ai contenuti specifici su cui sarà portato a riflettere.
Nella prima parte, che occupa quasi la prima metà del libro, l'autore disserta su "La morte al di qua della morte", portandoci effettivamente ad una lunga riflessione su quanto della morte è possibile confusamente intuire stando all'erta mentre siamo vivi. La sua non è una vera e propria indagine sulla morte, poiché di ciò che è assolutamente impossibile conoscere non si saprebbe neppure come e su cosa indagare. Vi è, invece, un esame approfondito delle varie teorie della morte, dell'anima, dell'essere, del non-essere, del divenire, del nulla, su cui la filosofia classica ha lungamente dibattuto, ed anche un esame delle teosofie, delle visioni filosofico-religiose sugli stessi temi.
Lo scopo principale di quest'analisi è, ovviamente, quello di poter poi confutare le precedenti teorie, dimostrando, per quanto sia possibile su temi così sfuggenti all'ambito razionale, la fallacia di tali visioni o, nel migliore dei casi, come esse siano semplici tentativi di portare una sorta di consolazione e di speranza di fronte all'angoscia del nulla che attende al varco ciascun essere umano, senza peraltro che ci sia alcuna possibilità di sfuggire alla tragedia estrema, al punto ultimo di ogni esistenza, e senza alcuna eccezione per alcuno. Consolazione e speranza che, di fronte alla realtà empirica, ineludibile quanto assurda e tuttavia necessaria, sono forse motivo di maggior disperazione e non offrono comunque alcun appiglio per poter cambiare le carte del destino. Jankelevitch tiene a sottolineare l'impossibilità di rendere "univoco", certo, definitivo, il concetto di morte che è invece un concetto "equivoco", in quanto tiene insieme dei contraddittori, la vita e la morte, e su cui non ci potranno mai essere delle verità definitive.
La dimostrazione di Jankelevitch, pur ammesso che nulla si possa dimostrare con metodi empirici quando l'oggetto su cui si discute è di ordine metaempirico, procede con uno specifico ordine, molto convincente in effetti, poiché il processo filosofico di avvicinamento all'evento straordinario (ma del tutto ordinario), che egli ci propone, risulta a dir poco lampante come una verità di La Palisse. Ci guida, infatti, a distinguere la morte in terza persona, dove ciascuno di noi è semplice spettatore della morte di altri, cosa del tutto naturale, ordinaria, e persino scontata da che esiste il mondo, dalla morte in seconda persona, dove si è spettatori della morte di un congiunto o di una persona cara, la cui scomparsa già appare più ingiusta della precedente, meno naturale ed ordinaria, dalla morte in prima persona, la morte-propria, che contrariamente al buon senso e all'evidenza, appare a ciascuno di noi come altamente improbabile, comunque lontana nel tempo e come un evento del tutto straordinario.
Ponendoci nelle diverse prospettive, potremmo insieme a Jankelevitch seguire il processo di conoscenza di questo istante tragico che è la morte, senza tuttavia poterne avere effettiva conoscenza; al più potremmo giungere ad una "scienza nesciente", che nulla ci dice del nucleo profondo di quell'istante, se mai quell'istante abbia un nucleo essenziale che possa essere oggetto di conoscenza. Jankelevitch porta avanti il suo discorso servendosi di moltissimi esempi, tratti tutti, com'è ovvio, dal mondo di quaggiù, dall'empiria, da ciò che solo può essere oggetto di discorso e di comprensione per un essere razionale, utilizzando anche un'efficace ed originale terminologia, come quando definisce la "semelfattività" della morte, indicando con ciò l'accadere di un evento di tale portata come quello che avviene una e una sola volta e in modo necessario.
La realtà tragica dell'istante mortale è ciò che tutti sanno in quanto si tratta di una "quoddità", ma nessuno conosce la "quiddità" di tale istante: in altri termini, tutti conoscono "il fatto che" ma non conoscono il "che", cioè nessuno conosce le modalità effettive del quod, le sue coordinate spazio-temporali e il modo in cui accadrà. In questa prospettiva, e solo per questa ambiguità della morte che è certa nel suo quod, ma incerta nel suo quid, la vita assume il grande ed inestimabile valore che ha. Valore che si esprime in tutte le azioni che siamo continuamente spinti a compiere, quasi con il sottinteso ed implicito intento di allontanare quanto più sia possibile l'istante supremo ed ultimo.
La morte, inoltre, svolge un compito essenziale quando accade, perché è solo e soltanto da quell'ultimo istante in poi che si ha il quadro completo di un'esistenza. Salvo che per il diretto interessato, per il quale questa nozione specifica non può essere mai posseduta, poiché prima è troppo presto (il quadro non è completo) e dopo è troppo tardi (non c'è più nessuno che possa sapere).
Viene analizzato il va-da-sé del divenire, nel quale consiste la continuazione dell'intervallo che costituisce la vita vera e propria, e che si situa tra il precedente non-essere, da cui ogni esistenza è tratta nel momento della nascita, e il nulla che mette fine a questo intervallo, senza che ci sia null'altro dopo, perché il nulla della fine è un nulla-più, un mai-più-nulla, un nulla definitivo ed una volta per tutte, un nulla eterno. E non ci sono misure comuni per comparare il non-essere precedente all'esistenza con il nulla che segue all'ultimo istante, il quale è un nulla del tutto, nulla di tutto l'essere, in quanto non c'è alcunché a seguire.
Nella sua lunga dissertazione Jankelevitch ci spiazza, anche perché mentre si aggira nei dintorni della morte, afferma categoricamente che mentre siamo in vita la morte non esiste affatto, ogni momento della nostra esistenza è vissuto in tutta la sua pienezza di vita, anche quando incalza l'invecchiamento, tanto è vero che la morte arriva sempre "all'improvviso" anche se sorprende una persona più che novantenne. In questo caso, si è solo percepita una maggiore probabilità, ma mai la sua approssimazione. La morte, vicinissima alla vita in quanto può arrivare in qualsiasi momento senza chiedere affatto il parere, è sempre lontanissima dalla vita. Ed è questa una fra le tante difficoltà di saperne alcunché. Non ci può essere neppure un apprendimento della morte, come certe religioni pretendono quando stimolano i credenti a "prepararsi alla morte". Risulta del tutto inutile prepararsi, vivere continuamente mortificandosi, vivere le piccole morti quotidiane e le rinunce in vista di un bene postumo, poiché non si può apprendere ciò che nessuno ci può insegnare perché nessuno ha mai vissuto l'esperienza, unica - singolare - estrema, della morte-propria, per potercene poi dare neppure la più pallida idea, e perché nulla si sa di questo incerto bene postumo.
In questa prima parte del libro, sono moltissimi i concetti di volta in volta messi in luce, senza tuttavia raggiungere una certezza sull'essenziale: è come fare una sorta di giro panoramico intorno ad una località sconosciuta, ma restando sempre alla periferia, poiché non ci sono mezzi che arrivino al centro.
Nella seconda parte, dal titolo che appare quasi come una sfida per quanto appena detto, Jankelevitch affronta "La morte nell'istante mortale". Qui la dissertazione si fa più insistente, più pericolosa, più dettagliata e sempre più tragica, mano a mano che cerca di avvicinarsi a quel centro inesplorabile che continuamente sfugge e si allontana quanto più sembra stia per essere raggiunto.
È come se il centro fosse dappertutto e per ciò stesso da nessuna parte. Come si può fare per individuarlo in modo esatto per poterlo poi ben esaminare? Ancora una volta si frappongono questioni puramente filosofiche che sono assolutamente ineludibili: la morte è un evento soltanto fisico, biologico, non può essere indagato con strumenti metafisici. Si può tentare di entrare nel dettaglio di cosa rappresenti l'ultimo istante rispetto a tutti gli istanti che l'hanno preceduto, ed affermare la sua assoluta particolarità, senza tuttavia poterlo mai cogliere "sul fatto", neppure quando si tratti dell'ultimo istante di una seconda o terza persona.
In questa seconda parte del libro, sono anche molto interessanti i raffronti che Jankelevitch ci presenta tra i modi in cui in letteratura sono state affrontate le situazioni di morte da parte di alcuni protagonisti di romanzi, di drammi, di opere musicali. Ed è pertanto molto ampia anche la mole di testi indicati nelle note, a cui il filosofo ha fatto riferimento nel suo lungo e complesso discorso filosofico sulla morte.
I quattro capitoli che si susseguono in questa seconda parte analizzano nel dettaglio quell'ultimo istante mortale fuori-categoria, di tutt'altro ordine rispetto a tutti gli altri istanti che compongono il nostro intervallo, cioè il divenire e la continuazione della vita, arrivando fino al quasi-niente dell'articolo di morte, ma eludendo la vera e propria soglia della morte.
Inoltre, viene mostrato come nel tempo dell'intervallo di vita sia l'irreversibilità temporale ad avere la meglio, in quanto, mentre ci permette un'andata e ritorno nello spazio, ci impedisce di fatto un ritorno indietro nel tempo.
Ed infine, una sola nota di vera consolazione (ma di consolazione si tratta?) ci viene offerta da Jankelevitch nel capitolo in cui, pur affermando l'irrevocabilità sia dell'istante mortale sia dell'irreversibile temporalità vissuta, ci mette davanti all'impossibilità di cancellare e nichilizzare, insieme a tutto l'essere, anche il fatto di esser-stato. Una volta che un'esistenza, che poteva anche non-essere, sia venuta alla luce con la nascita, diventando un essere, nessuna morte potrà mai cancellare il fatto che questo essere sia vissuto.
Nessun olocausto con l'annichilimento di milioni di esseri potrà mai cancellare il fatto che questi esseri siano stati.
A questo proposito, vorrei sottolineare come Jankelevitch, filosofo ebreo, la cui esperienza è stata fortemente segnata dall'innominabile tragedia della "morte di massa" di milioni di ebrei, non faccia mai esplicito riferimento a quella mostruosa e immane e gratuita carneficina dettata solo da menti demoniache e folli, tranne in un punto, ma quasi di sfuggita, come uno fra i tanti esempi che adduce per spiegare meglio i concetti che esprime. Ma molto probabilmente, come ci dice nell'Introduzione Enrica Lisciani Petrini che ha curato l'edizione italiana del libro, quell'esperienza è lo sfondo costante e ineludibile di tutta la sua riflessione filosofica sulla morte.
Nella terza ed ultima parte del libro, Jankelevitch torna su alcuni concetti già affrontati, approfondendoli ancora, pur senza darci una virgola in più di conoscenza sul concetto di morte vero e proprio. Se l'indagine riguarda "La morte al di là della morte", e se Jankelevitch ha avuto sin dall'inizio del libro l'intento dichiarato di mostrare l'inutilità delle teorie profetiche o consolatorie circa l'al di là, è del tutto evidente che nulla avrebbe da dire su qualcosa che ritiene assolutamente inesistente. E tuttavia, nei quattro capitoli che compongono quest'ultima parte, prova a chiedersi se l'al di là è un avvenire, che senso ha la paura dell'istante estremo, quali speranze sostengono la capacità di affrontare questo istante tragico in vista di qualcosa di completamente incerto che ci attenderebbe dall'altra parte della soglia. E si sofferma, in particolare, nel dimostrare l'assurdità della sopravvivenza, i concetti di immortalità, di resurrezione e di vita perpetua, distinguendo l'anima dal corpo, ma non nel senso consueto delle filosofie tradizionali. L'anima, per il nostro autore, non è altro che l'essere pensante, l'anima può esser tale solo se esiste un essere pensante, essa non ha un luogo determinato nel corpo, così come i pensieri non risiedono nel cervello ma sono impossibili senza di esso. Dimostrando infine l'assurdità della nichilizzazione dell'individuo, cioè di tutto l'essere pensante, prodotta dalla morte, indugia sulla continuazione della specie che può aver luogo solo a partire dalle singole morti individuali. Sono queste ad innescare quel processo generativo per il quale le nascite sembrano in qualche modo compensare le morti, ma, - ahimé! - c'è di mezzo quell'insostituibilità di ogni singola esistenza che alla fine non rende giustizia, in nessun modo, al singolo individuo. Perché la compensazione quantitativa non ha nulla a che vedere con la sostituzione qualitativa. E questo anche a prescindere che si tratti di un nuovo individuo o che si tratti di una "rinascita" nell'al di là. Non fosse altro perché una rinascita si compie in un diverso momento temporale, e dunque non può che trattarsi di individui diversi.
Mai due volte una cosa, mai due volte un evento! Figuriamoci una persona!
La riflessione conclusiva porta Jankelevitch sul terreno della surcoscienza e poi sui concetti di Amore, Libertà, Dio, nei confronti dei quali afferma la superiorità della morte, ma reciprocamente la loro superiorità sulla morte dal punto di vista generale, in quanto l'eternità della Vita è la stessa eternità della Verità, che nessuna morte individuale potrà mai scalfire.
E dunque, non ci resta che prendere atto che tutto ciò che di noi resterà saranno le azioni giuste che avremo compiuto in quest'unica vita che abbiamo avuto in sorte e, insieme a ciò, il nostro esser-stati, sì minima parte, ma non insignificante, anzi unica, irripetibile e di inestimabile valore, della totalità di un universo. Il fatto d'esser-stati, il fatto d'aver-fatto le cose che abbiamo fatto, il fatto d'aver-amato, nessuna morte potrà mai cancellarlo.
E grazie alla nostra esistenza, la Vita continuerà a dispetto della Morte.
La lettura di questo libro è senz'altro molto impegnativa, ma per chi volesse cimentarsi con un modo nuovo di filosofare intorno a Quella-Cosa che mentre ci appartiene singolarmente non ci appartiene affatto finché viviamo, potrà essere un ottimo esercizio per tenerla lontana, abbordandola con l'appellativo "la morte, questa sconosciuta!", stigmatizzandola e rimandandola alle calende greche. Un ottimo antidoto, insomma. Una sorta di vaccino, per cercare di curare la malattia delle malattie, l'unica davvero incurabile, se non guardandola dall'alto della surcoscienza universale.

P.S.: Ne ho ricavato una semplice "Equazione" che si conclude con un augurio:

La vita sta alla morte
come il sole a una notte
senza luna né stelle,
a cui non seguirà
alcuna nuova alba.

Su questo fondo buio
cupo nero profondo
tanto più sfolgorante
appare a noi la vita.

Che sia un felice intervallo
tra il non-essere e il nulla!

Carmen Lama, 3/2/2010

venerdì 15 maggio 2009

Andrea Vitali

recensisce Andrea Vitali


ALMENO IL CAPPELLO
di Andrea Vitali - ediz. Garzanti 2009
ISBN 978-88-11-68606-4

Scrivere una recensione ha nella maggior parte dei casi lo scopo di far conoscere un libro letto ad altri lettori ed indurli all’acquisto. È un modo di far pubblicità descrivendone soprattutto i pregi, che possono riguardare, se si tratta ad esempio di un romanzo, la storia narrata, gli intrecci, le caratteristiche dei personaggi, lo stile di scrittura, la piacevolezza ed altro.
Nel caso dei romanzi di Andrea Vitali questo scopo “pubblicitario” viene meno perché lo scrittore è ormai molto noto ai lettori, non solo italiani, e il successo di vendita dei suoi libri, oltre ad alcuni premi letterari vinti, fanno pensare che forse non servirebbe neppure una recensione, poiché basta sapere che è in libreria un suo nuovo testo e la curiosità spinge all’acquisto, con la speranza e/o la certezza che ancora una volta si troverà qualcosa di piacevole da leggere e non si resterà delusi.
Personalmente, tuttavia, penso sia gratificante in sé scrivere le impressioni di lettura su un romanzo, perché spesso i punti di vista dei lettori differiscono e una recensione potrebbe rivelare alcuni elementi che non tutti potrebbero aver colto.
Il nuovo romanzo di Andrea Vitali, Almeno il cappello, ambientato in Bellano e nei paesi vicini, mentre conferma la capacità di scrittura scorrevole e limpida dell’autore, aggiunge delle caratteristiche peculiari a tutta la trama narrativa che, pur presenti in alcuni dei suoi precedenti scritti, sono qui molto più evidenti.
Si tratta, dal mio punto di vista, della rivelazione di un certo modo rassegnato di vivere, negli anni del fascismo, che non è strettamente legato allo stato di soggezione in cui ci si sentiva, né dipendente dall’aria che si respirava allora, in fatto di libertà, quanto determinato da una semplicità intrinseca all’animo dei cittadini di un piccolo paese di provincia.
Questi avevano, infatti, scarse opportunità di fare esperienze al di fuori della ristretta cerchia di persone conosciute, tranne pochi casi di persone che per motivi di lavoro si spostavano nei paesi del circondario, fino alla sponda opposta del lago e, solo di rado, fino alla città di Como, in luoghi, peraltro, dove non si viveva tanto diversamente.
I personaggi che si muovono in questo romanzo sono dunque delle persone semplici che non si pongono troppi problemi, ma che hanno voglia di vivere una vita dignitosa e, possibilmente, resa più accettabile da qualche piccola soddisfazione.
Il loro animo è e rimane libero, in quanto la gestione politica della loro vita non viene del tutto subita, anzi, coltivando le amicizie giuste con le persone giuste, e pur senza entrare in contrasto con le leggi in vigore, si riesce talvolta ad ottenere dei favori, che non sono affatto da confondere con “favoritismi”, ma che anzi hanno tutta l’aria di rispondere al consentire l’esercizio di un diritto da parte di chi detiene un certo potere.
La trama narrativa del romanzo è ben congegnata, e ruota attorno alle vicende familiari e personali non di uno solo, ma di ben due protagonisti: il suonatore del bombardino, (inizialmente nella fanfaretta del paese di Bellano e successivamente nella costituenda Banda o Corpo musicale vero e proprio) e il nuovo ragioniere, competente e molto responsabile, dell’ospedale, nonché nuovo direttore della Banda stessa.
La leggerezza del racconto è tale da far scivolare nella mente le pagine in un susseguirsi di azioni e reazioni che suscitano curiosità in molti modi: a volte perché le situazioni narrate hanno del paradossale, a volte perché sembrano addirittura ridicole, a volte perché vengono alla luce delle intrusioni inaspettate che sembrano deviare il corso naturale degli eventi, a volte ancora perché gli stessi personaggi si sorprendono della loro stessa ingenuità e cercano dei sotterfugi o delle modalità comunque bonarie di far tornare le cose per il verso giusto. Non mancano, ad alleggerire la pesantezza di certi vissuti familiari, degli eventi su cui l’autore, attraverso alcuni dei suoi personaggi, fa aleggiare l’ironia e un certo modo gioviale di prendere la vita. Così come non mancano le sottolineature riguardo alle gattopardesche posizioni degli amministratori comunali, che rimandano decisioni, quando non le capovolgono, responsabilizzando sempre “altri” riguardo all’incapacità di risolvere problemi, che generalmente sono sempre piuttosto banali, ma che vengono fatti passare quasi come insormontabili, al punto da dover coinvolgere “il partito” e/o chi ha voglia di assumersi qualche responsabilità.
In questo, nulla di diverso dai tempi attuali, par di capire!
Anche se coerentemente con quanto ci si potesse aspettare dalla natura dei personaggi in azione, la storia non termina bene, perché non è una fiaba dove alla fine “tutti vivono felici e contenti”, ma è una realtà, o comunque una ripresa-ricostruzione di una realtà verosimile, in un contesto spazio-temporale e socio-culturale particolare, in cui le ripercussioni di ogni azione, reazione, decisione o indecisione, retroagiscono sulle persone, determinandone umori, stati d’animo, caratterialità, talvolta imprevedibili.
Un esempio ne è il direttore del Corpo musicale bellanese, che a seguito della sfortunata inaugurazione mancata della “sua” banda nel giorno della festa dei SS. patroni del paese, si ammala di una sorta di depressione che gli preclude ogni ulteriore possibilità non solo di far musica, ma addirittura di interessarsene o di ascoltare qualsiasi parvenza di suono che gliene ridesti il ricordo.
E ancora, coerentemente con la taccagneria dimostrata dal podestà del paese (per l’acquisto delle divise dei componenti del Corpo musicale, ad esempio, o per rispondere ad altre esigenze), il quale dopo la morte improvvisa del suonatore del bombardino voleva che si recuperasse “almeno il cappello”, emerge, a mo’ di specchio, l’avidità di un ragazzo che, durante una “fortunata” battuta di pesca ritrova nel lago proprio quel cappello e in esso scopre una sorpresa: nascosto dentro una cucitura interna c’è il valore quasi totale dell’intera divisa, (ottanta lire su cento), che il suonatore del bombardino era riuscito ad ottenere subdolamente dalla moglie, ma che non era riuscito a spendere per intero nelle osterie per soddisfare il suo bisogno di libertà. Per il ragazzo è il ritrovamento di un piccolo tesoro. E comunque sia, si tratta di piccoli quadri di realtà.
In tutte le situazioni narrate, i personaggi sono connotati proprio da quella caratteristica di cui si diceva all’inizio: è palpabile in ognuno, in maniera diversa e molto personale, l’arte di riuscire a recuperare dalla vita momenti di benessere, (pur con una certa dose di rassegnazione), nella maggior parte dei casi in modo leale ed innocente, qualche volta anche con piccoli sotterfugi che però non dipingono mai chi ne fa uso in modo negativo, perché sempre c’è una sottile linea di bonomia nei loro confronti da parte degli altri cittadini o conoscenti. A dimostrazione, quasi, di una certa solidarietà fra le persone che nei tempi in cui il romanzo è ambientato e in piccoli paesi come Bellano, costituiscono una vera e propria comunità.
Ecco, dunque, il pregio maggiore di questo romanzo di Andrea Vitali: raccontare alcuni aspetti della vita di una piccola comunità in un tempo, per altri versi, difficile, e mostrare la semplicità, l’ingenuità, ma anche l’attaccamento reciproco delle persone tra loro, e una solidarietà quasi scontata, un interesse per le vicende dei compaesani che non è pura curiosità o, come si direbbe oggi, gossip, bensì un modo per entrare in sintonia e poter essere anche d’aiuto quando ciò dovesse servire. Per ultimo, vorrei ri-sottolineare la scorrevolezza della narrazione, che si serve di frasi brevi e d’effetto e di un lessico familiare che rispecchia e caratterizza ancor meglio i personaggi la cui cultura è di tipo contadino; e infine una capacità dello scrittore di tenere desta dall’inizio alla fine la curiosità del lettore, il quale non si perde mai nella trama pur intricata delle varie situazioni narrate, anzi acquista una certa familiarità al punto che vorrebbe suggerire a volte, a qualche personaggio più sprovveduto, dei comportamenti diversi per un esito migliore e più soddisfacente per lui.

M. Carmen Lama

domenica 1 marzo 2009

Zainab Salbi

Recensione di Carmen Lama




Una donna tra due mondi

(La mia vita all’ombra di Saddam Hussein)

Zainab Salbi ha avuto lo sfortunatissimo privilegio di essere la figlia del pilota personale del dittatore iracheno e, insieme con la sua famiglia, di essere accolta nella cerchia degli amici più vicini alla vita di palazzo. Con la strana caratteristica, tuttavia, di essere considerata dai più intimi del Presidente qualcosa di meno di loro e dai suoi stessi amici come qualcosa di più di loro, così da appartenere contemporaneamente a due mondi che in qualche modo le risultavano estranei o che tale la facevano sentire.

Questo libro è una testimonianza terribile delle atrocità commesse dal dittatore Saddam, non soltanto a danno del suo stesso popolo, assoggettato fin nella possibilità di pensare, ma anche della stessa Zainab e dei suoi familiari (genitori e due fratelli minori di lei), in questo caso con ferite gravissime nell’anima mai più rimarginabili, nonostante il “disgraziato” privilegio di vivere a stretto contatto con lui e con tutto il suo entourage ed evidentemente ancora di più proprio per questo. L’autrice racconta particolari agghiaccianti del comportamento di Saddam, il cui tenore di vita è sempre stato improntato ad un lusso sfrenato consentito da circostanze astutamente e malvagiamente create a danno di tutti gli iracheni.

Noi probabilmente conosciamo alcune situazioni la cui eco è risaltata attraverso i media nelle nostre case al tempo della Guerra del Golfo, ma le informazioni a suo tempo trasmesse in TV e riportate sui giornali sono una minima parte di quanto avveniva nella realtà quotidiana in Iraq. L’autrice è stata talmente segnata in profondità che non riusciva neppure a pronunciare il nome del dittatore, fin quando egli era in vita, anche dopo il suo allontanamento dal potere (e dall’Iraq) ad opera di Bush. Scrivere questo libro l’ha aiutata a recuperare tratti del proprio passato che aveva cercato non di rimuovere ma addirittura di cancellare, relegandoli nel punto più profondo e distante della mente, rispetto alla consapevolezza, per poterli rielaborare.

La sua esistenza è stata devastata dalla paura a tal punto che aveva paura della sua stessa paura.

È stata derubata dei suoi princìpi, sostituiti con le sole idee che tutti gli iracheni indistintamente dovevano avere, e che erano le idee di Saddam. Le torture fisiche subite da moltissimi suoi connazionali anche per futili motivi probabilmente potrebbero essere prese come un paragone con le torture psicologiche subite da Zainab e da tutta la sua famiglia, ma queste ultime hanno avuto esiti molto più tragici, perché l’anima ferita in profondità è inguaribile.

Zainab è riuscita a sfuggire alle grinfie del dittatore che su lei appena giovanetta aveva messo gli occhi, come aveva fatto con moltissime altre donne giovani e meno giovani, sottomesse con violenza in molti modi, solo grazie alle sofferenze a cui ha dovuto andare incontro la madre di lei nel tentativo di sottrarre la figlia ad esperienze ancora più terribili di quante ne avesse già subite.

La storia che l’autrice racconta è la sua personale e quella della sua famiglia e delle persone a loro più vicine, ma inevitabilmente è anche la storia di Saddam. Non vengono trascurati dettagli importanti, pur se ignobili, per dare il senso pieno e profondo di un trentennio di tirannia che forse non ha uguali nella storia.

Con il definitivo trasferimento di Zainab negli Stati Uniti, e solo dopo la morte del dittatore iracheno, ha potuto prendere forma questo libro-testimonianza, anche grazie al lavoro svolto dall’autrice che ha fondato l’Associazione “Donna per la donna” con lo scopo di aiutare tutte le donne vittime di tirannie nei propri stessi paesi. In quanto Presidentessa di questa Associazione no profit, la Salbi è venuta a conoscenza di storie terribili in diverse altre parti del mondo oltre che in Iraq e ha aiutato le vittime a raccontarle, finché si è resa conto che aveva paura di raccontare la sua storia altrettanto terribile.

A sua volta con l’aiuto di una giornalista che l’aveva conosciuta molti anni prima e del suo “dolcissimo” marito che l’ha sempre affiancata nel condurre l’Associazione, è riuscita a raccontare moltissime cose di sé, della sua sfortunata e travagliatissima vita “all’ombra di Saddam Hussein”, ma le è costato un enorme sforzo psicologico.

Leggere questo libro mi ha reso ancora più consapevole (se ce ne fosse bisogno) non solo di realtà che spesso i media non ci sottopongono o, se lo fanno, lo fanno in modo tanto superficiale da risultare inutile e vano, ma mi ha anche dato il senso della forza e determinazione di molte donne, da un lato, e dell’infimo degradarsi di certi uomini, dall’altro.

In questi giorni in Italia si continua a parlare di stupri, e non ci si indigna mai abbastanza.

Ma l’autrice ci racconta che sono stati istituzionalizzati appositi campi di stupri in zone martoriate da guerre assurde e nessun governo forte (Stati Uniti in testa) non solo non ha prevenuto azioni tanto turpi e disumane, ma neppure le ha condannate né eliminate, se non al termine delle guerre (Bosnia, Kossovo, ecc..).

Non ci si indigna mai abbastanza finché questi orrori non verranno ritenuti dei crimini peggiori delle stesse torture, per i quali dovrebbero essere previste le pene più severe.

L’avere scritto questo libro fa onore all’autrice, perché esalta la sua dignità di donna e quella di tutte le donne la cui umanità esula dal “genere” per essere una caratteristica strettamente individuale. E va dato merito e onore anche a quegli uomini che insieme a lei si occupano attivamente di debellare questo endemico crimine che degrada coloro che se ne macchiano al di sotto del livello delle bestie.

Le testimonianze della Salbi sono tanto nette e dettagliate che il libro può essere considerato un vero documento storico, da cui si evince purtroppo molto chiaramente quanto ho fin qui scritto.

Non ho voluto di proposito, in questa recensione, soffermarmi su particolari di maggior rilievo, perché il libro intero ne è pieno e pertanto merita solo di essere letto integralmente.

Carmen Lama, 16 febbraio 2009